Responsabilità dirigenziale e compliance nella sicurezza sul lavoro.
Due recenti pronunce della Cassazione ci permettono di soffermarci sui profili di responsabilità civile in capo al vertice aziendale, alla dirigenza preposta al ruolo di garante della sicurezza sul lavoro e sul funzionamento delle deleghe di funzione adeguatamente predisposte al fine di suddividere la suddetta responsabilità.
Il tema è quello della possibilità o meno per il vertice di potersi sgravare da responsabilità tramite apposita delega di funzioni a dirigenti prescelti, atteso che, in imprese di rilevanza dimensionale elevata (migliaia di dipendenti, decine di sedi) la pretesa responsabilità civile dell’amministratore delegato veniva e viene vissuta come una forzatura ingiusta per il fatto che, nella sostanza, contrasta con l’impossibilità del soggetto di farsi parte attiva e/o operativa per contrastare il fenomeno in questione da piu’ punti di vista.
Innanzitutto, dal punto di vista materiale è evidente e incontrovertibile l’impossibilità di svolgere la funzione di responsabile della sicurezza sul lavoro per le concomitanti funzioni manageriali a cui il manager/management deve attendere; esse possono essere complesse e svolte in diversi contesti geografici sicché apparirebbe una estrema forzatura garantire i lavoratori con una presenza che sarebbe eminentemente formale.
In secondo luogo, ugualmente paradossale apparirebbe la responsabilita’ addossata al manager che tecnicamente non avesse il know-how e l’esperienza professionale per occuparsi del tema-sicurezza.
Pertanto, data la capillare importanza sociale del tema della sicurezza e dei connessi infortuni sul lavoro, i dipendenti sarebbero adeguatamente tutelati non da una mera operazione di facciata consistente nell’attribuire al vertice una sorta di responsabilità oggettiva (detto della sua inevitabile assenza fisica e operativa), ma da una auspicabile attivazione della fonte di responsabilità in capo a funzionari all’uopo delegati e preposti dal vertice.
Trattasi di coloro che sono realmente presenti e operativi sul posto e che abbiano le qualifiche tecniche per adoperarsi in materia. Tutto ciò garantirebbe l’effettiva tutela dei lavoratori e darebbe sostanza alla governance in materia operata dall’azienda attraverso la creazione di adeguati protocolli.
Entrando nel commento, le due pronunce in materia fanno chiarezza con significati orientamenti che si iscrivono in un solco già tracciato dal dettato di legge (qui ripreso con dovuta interpretazione) e dottrina.
La prima pronuncia (CASS., SEZ. IV PENALE, SENT. 29 LUGLIO 2014, N. 33417) precisa che l’amministratore e legale rappresentante di una società (specie se di ampie dimensioni) non possa essere, solo per il ruolo ricoperto, automaticamente ritenuto penalmente responsabile di ogni violazione riguardante gli obblighi antinfortunistici, venendosi altrimenti a creare un’inammissibile ipotesi di responsabilità oggettiva.
Se ne può desumere, che laddove in Azienda sia stato predisposto un efficace organigramma, a compendio del quale figuri un congruo sistema di deleghe, il vertice dirigenziale possa risultare protetto da eventuali addebiti ricollegati a condotte poste in essere da soggetti posti a livello sub-apicale.
Allo stesso modo, seppur in senso più generale, se un corretto sistema di deleghe attribuisce funzioni (delegabili) proprie di un soggetto ad altri, il soggetto delegante (fatta eccezione per le riserve di legge, tra cui le ipotesi di culpa in eligendo e di culpa in vigilando) potrà chiamarsi esente da responsabilità in caso di condotta criminosa del delegato.
La pronuncia in commento, peraltro, precisa che anche a prescindere dall’adozione di un (più che) opportuno sistema di deleghe, i soggetti subordinati al datore di lavoro sono pur sempre destinatari di specifici obblighi antinfortunistici che, se violati, comportano una responsabilità ad essi soltanto ascrivibile; in tal senso secondo la Corte, infatti, l’art. 1 comma 4-bis del D.Lgs. 19.09.1994 n. 626 (come modificato dal D.Lgs. 19.03.1996 n. 242), nel disporre che il datore di lavoro, i dirigenti ed i preposti sono tenuti all’osservanza delle disposizioni in materia di sicurezza sul lavoro, comporta anche per i collaboratori del datore di lavoro (dirigenti e preposti) a venir considerati, nell’ambito delle rispettive competenze ed attribuzioni, destinatari iure proprio dell’osservanza dei precetti antinfortunistici,indipendentemente dal conferimento di una delega ad hoc.
La seconda pronuncia (C. Cass., sent. 17 settembre 2014, n. 38100) rafforza il concetto, espresso dalla Consulta a luglio, ribadendolo a distanza di soli due mesi.
Con la sentenza n. 38100, depositata il 17 settembre 2014 la Consulta ha ribadito che “II responsabile del servizio di prevenzione e protezione è una sorta di consulente del datore di lavoro e i risultati dei suoi studi ed elaborazioni sono fatti propri dal datore di lavoro che lo ha scelto, con la conseguenza che quest’ultimo è chiamato a rispondere delle eventuali negligenze del primo” (Cass. pen. Sez. IV, n. 1841 del 16.12.2009, Rv. 246163).
Infatti il ricorso all’ausilio di professionisti specializzati non implica alcuna possibilità di scaricare sugli stessi ogni responsabilità di cui è espressamente onerato il datore di lavoro ma significa solo che questi puo’ avvalersi, facendole proprie, delle segnalazioni, raccomandazioni, consigli precauzionali e prevenzionali espressi dagli specialisti medesimi in relazione alla specifica attività lavorativa per la quale è stato sollecitato il loro intervento.
In questo contesto è chiaro che permane un dovere ineluttabile di scelta (ius eligendi) e vigilanza (ius vigilandi) da parte del datore sui soggetti preposti all’attività di prevenzione.
Quello che non deve essere equivocato cosa bisogna intendere per datore di lavoro, dato che il ruolo che assume questa figura va verificato in concreto con la posizione che riveste chi è stato investito della funzione tramite delega del vertice, funzione implicante appunto anche i controlli di cui sopra.
Sul punto, continua la Corte: “È utile ricordare, in proposito, ulteriori principi affermati da questa Corte in tema di delega del datore di lavoro. È vero che nelle imprese di grandi dimensioni si pone la delicata questione, attinente all’individuazione del soggetto che assume su di sè, in via immediata e diretta, la posizione di garanzia, la cui soluzione precede, logicamente e giuridicamente, quella della (eventuale) delega di funzioni. In imprese di tal genere, infatti, non può individuarsi questo soggetto, automaticamente, in colui o in coloro che occupano la posizione di vertice, occorrendo un puntuale accertamento, in concreto, dell’effettiva situazione della gerarchia delle responsabilità all’interno dell’apparato strutturale, così da verificare l’eventuale predisposizione di un adeguato organigramma dirigenziale ed esecutivo il cui corretto funzionamento esonera l’organo di vertice da responsabilità di livello intermedio e finale (cosa, esattamente, Sezione IV, 9.7. 2003, Boncompagni; Sezione IV, 27.3. 2001, Fornaciari, nonche’ Sezione IV, 26.4.2000, Mantero). In altri termini, nelle imprese di grandi dimensioni non è possibile attribuire senz’altro all’organo di vertice la responsabilità per l’inosservanza della normativa di sicurezza, occorrendo sempre apprezzare l’apparato organizzativo che si è costituito, sì da poter risalire, all’interno di questo, al responsabile di settore. Diversamente opinando, del resto, si finirebbe con l’addebitare all’organo di vertice quasi una sorta di responsabilità oggettiva rispetto a situazioni ragionevolmente non controllabili, perché devolute alla cura ed alla conseguente responsabilità di altri. È altrettanto vero che il problema interpretativo ricorrente è sempre stato quello della individuazione delle condizioni di legittimità della delega: questo, per evitare una facile elusione dell’obbligo di garanzia gravante sul datore di lavoro, ma, nel contempo, per scongiurare il rischio, sopra evidenziato, di trasformare tale obbligo in una sorta di responsabilità oggettiva, correlata in via diretta ed immediata alla posizione soggettiva di datore di lavoro. Sul punto, costituisce affermazione consolidata che il datore di lavoro sia il primo e principale destinatario degli obblighi di assicurazione, osservanza e sorveglianza delle misure e dei presidi di prevenzione antinfortunistica. Ciò dovendolo desumere, anche a non voler considerare gli obblighi specifici in tal senso posti a carico dello stesso datore di lavoro dal decreto legislativo in commento, dalla “norma di chiusura” stabilita nell’art. 2087 c.c., che integra tuttora la legislazione speciale di prevenzione, imponendo al datore di lavoro di farsi, in quanto tale, garante dell’incolumità dei lavoratore. Va, quindi, ancora una volta, ribadito che il datore di lavoro, proprio in forza delle disposizioni specifiche previste dalla normativa antinfortunistica e di quella generale di cui all’art. 2087 c.c., è il “garante” dell’incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale del lavoratore, con la già rilevata conseguenza che, ove egli non ottemperi agli obblighi di tutela, l’evento lesivo gli viene addebitato in forza del principio che “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo” (art. 40 c.p., comma 2).
Altrettanto consolidato è il principio che la delega non può essere illimitata quanto all’oggetto delle attività trasferibili. In vero, pur a fronte di una delega corretta ed efficace, non potrebbe andare esente da responsabilità il datore di lavoro allorché le carenze nella disciplina antinfortunistica e, più in generale, nella materia della sicurezza, attengano a scelte di carattere generale della politica aziendale ovvero a carenze strutturali, rispetto alle quali nessuna capacità di intervento possa realisticamente attribuirsi al delegato alla sicurezza (v., tra le altre, Sez. IV, 6.2.2007, Proc. gen. App. Messina ed altro in proc. Chirafisi ed altro). È da ritenere, quindi, senz’altro fermo l’obbligo per il datore di lavoro di intervenire allorché apprezzi che il rischio connesso allo svolgimento dell’attività lavorativa si riconnette a scelte di carattere generale di politica aziendale ovvero a carenze strutturali, rispetto alle quali nessuna capacità di intervento possa realisticamente attribuirsi al delegato alla sicurezza. Tali principi hanno trovato conferma nel D.Lgs. n. 81 dei 2008, che prevede, infatti, gli obblighi del datore di lavoro non delegabili, per l’importanza e, all’evidenza, per l’intima correlazione con le scelte aziendali di fondo che sono e rimangono attribuite al potere/dovere del datore di lavoro (v. art. 17).
Trattasi: a) dell’attività di valutazione di tutti i rischi per la salute e la sicurezza al fine della redazione del documento previsto dal cit. Decreto legislativo, art. 28, contenente non solo l’analisi valutativa dei rischi, ma anche l’indicazione delle misure di prevenzione e di protezione attuate; nonché b) della designazione dei responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi (RSPP).
In definitiva è chiara l’importanza delle pronunce richiamate, in un contesto in cui il top management delle imprese di dimensione elevata ha sempre cercato di ottenere risposte certe circa i la presenza o l’assenza di profili di propri responsabilità in detti contesti e circa gli eventuali limiti. Le risposte (a volte incerte) si sono sempre giustamente concentrate sul funzionamento in concreto delle deleghe di funzioni, sulle modalità di una loro efficace adozione e sulla conseguente possibilità per il vertice aziendale di sgravarsi di responsabilità diretta in materia di lavoro, sia per oggettiva impossibilità temporale e fisica di attendere al ruolo, sia per mancanza delle conoscenze professionali e tecniche richieste per l’operatività del ruolo stesso. In diversi contesti, nel passato, vi sono stati dubbi e interpretazioni controverse in materia che ora la Suprema Corte sta tentando efficacemente provando a chiarire. Ovviamente, il tutto deve avvenire senza alcuna abiura dei principi di ius eligendi et vigilandi a cui sempre deve attendere ogni manager, evitando scarichi di responsabilità pretestuosi o approfittando del contesto normativo e/o interpretativo.
Milano, 22 settembre 2014 Avv. Nicola Tilli
Nicola Tilli